Perché un ricorso contro la legge elettorale

La legge elettorale non aiuta ad arrivare a fine mese o a ottenere una rapida prestazione sanitaria, ma la legge elettorale stabilisce le regole per rinnovare il Parlamento dove si decide sulla qualità della nostra vita. Pertanto, affermare “non m’interessa la legge elettorale” significa non curare i propri interessi perché dalla legge elettorale dipende tutto ciò che scandisce la nostra vita.


Nel 2017 è stata approvata una nuova legge elettorale, nota come Rosatellum, che, come le precedenti (Porcellum 2014 e Italicum 2017) già bocciate in più punti dalla Corte Costituzionale, impedisce la piena libertà di voto, calpesta il diritto degli elettori di scegliere i propri rappresentanti e compromette la rappresentatività del Parlamento, ancor più oggi dopo il taglio dei parlamentari. 

Percorsi di lettura

Rosatellum: antefatto e status quo - di Sergio Bagnasco

 

 - Perché il Rosatellum

illustra il motivo per cui si è resa necessaria una nuova legge elettorale dopo il referendum del 2016 sulla riforma Boschi-Renzi

  - Come funziona il Rosatellum

spiega i meccanismi della vigente legge elettorale mettendo in risalto gli aspetti critici

  - Cosa succederebbe se si votasse con il Rosatellum

 illustra le conseguenze in termini di perdita di rappresentatività del Parlamento se si votasse nuovamente con il Rosatellum dopo il taglio dei parlamentari

  - Il mito della stabilità di governo

 spiega che anche il Rosatellum è figlio della pretesa ormai trentennale di inseguire la stabilità di governo attraverso la legge elettorale (è un punto cruciale perché questo assunto è stato in modo apodittico fatto proprio dalla Corte costituzionale ed è alla base dei ragionamenti poco convincenti sviluppati dalla Corte con le sentenze 1/2014 e 35/2017)

 

Come si è arrivati alla Corte Costituzionale, e le risultanze degli interventi giurisdizionali

- di Sergio Bagnasco


 - I ricorsi contro la legge elettorale

introduce il tema onnipresente da 15 anni che vede le diverse leggi elettorali al centro di una complessa vicenda giudiziaria (singolare che un tema squisitamente politico diventi un tema giudiziario; un unicum in tutto il mondo democratico)

 - Entra la Corte

il tema elettorale giunge finalmente al giudizio della Corte e si illustra il difficile rapporto tra la Corte e il Potere legislativo, con le conseguenze che ne derivano

 - Le Coalizioni 

 - La soglia di sbarramento 

 - Il Premio 

 - Il Ballottaggio 

 - La Preferenza 

 - Le candidature multiple

sono i diversi aspetti che emergono dalle sentenze della Corte; ogni aspetto è affrontato in modo unitario per dare il quadro della situazione in cui ci troviamo

 - Cosa resta dopo decenni di ricerca della stabilità attraverso la legge elettorale? 

sorta di conclusione: dopo un iperattivismo legislativo, sul piano politico siamo al punto di partenza, ma con una serie di paletti piantati dalla Corte che rendono oggi la vicenda elettorale molto più preoccupante di quanto lo fosse nel 1993. Oggi, siamo molto vicini a una nuova legge Acerbo, vale a dire a un nuovo suicidio del Parlamento come quello che rese possibile nel 1923 una svolta totalitaria nel rispetto formale delle garanzie statutarie.

 

 

 


Perché il Rosatellum

 

Nel 2016, dopo la bocciatura della riforma costituzionale Boschi-Renzi e le dimissioni del governo, in tanti chiedevano le elezioni anticipate.

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affidò invece a Paolo Gentiloni l’incarico di formare un nuovo governo spiegando che non era possibile andare a elezioni anticipate perché avevamo “per la Camera, una legge fortemente maggioritaria e, per il Senato, una legge del tutto proporzionale”. 

Peccato non abbia rilevato questa evidenza quando promulgò la legge, essendo un rischio implicito nell’approvazione e nella promulgazione della legge elettorale nota come Italicum. Questa nuova legge, infatti, riguardava la sola Camera dei deputati e aveva la sua ragione di esistere nell’ipotesi fosse stata approvata definitivamente la riforma costituzionale Boschi-Renzi che escludeva il Senato dal vincolo fiduciario col Governo e lo rendeva a elezione indiretta.

La Corte costituzionale aveva, infatti, affermato che una ragionevole alterazione della rappresentanza è accettabile solo se favorisce la stabilità di governo e maggioranze omogenee tra le due camere. Nulla di ciò è possibile se abbiamo due camere elettive, di cui una alterata da un premio di maggioranza, con due leggi profondamente diverse ed entrambe legate da vincolo fiduciario con l’esecutivo.

Il governo Gentiloni chiese la fiducia alle camere affermando che avrebbe lasciato al Parlamento ogni decisione sulla legge elettorale.

Il Parlamento preferì non partire dalle leggi esistenti, vale a dire il Porcellum per il senato privato del premio di maggioranza e con l'aggiunta della preferenza o dall’Italicum privato del ballottaggio, e puntò a una nuova legge elettorale giungendo dopo lunghi mesi di proposte all’approvazione mediante ripetuti voti di fiducia (meno male che il governo doveva starne fuori) a una legge elettorale mista passata alla storia con il nomignolo di Rosatellum dal nome del principale ideatore Ettore Rosato.

Così, il Parlamento, eletto nel 2013 con il Porcellum, dopo aver approvato l’Italicum – mai utilizzato – ha approvato nel 2017 una nuova legge elettorale, il Rosatellum, da tutti considerata transitoria e quindi come da tradizione ancora in vita.

Come funziona il Rosatellum

Il Rosatellum (legge n. 165/2017) è stato utilizzato per prima volta (e noi lavoriamo perché sia anche l’ultima) alle elezioni del 2018. Questa legge è stata poi modificata con legge n. 51/2019 per rendere la legge elettorale idonea a qualsiasi numero di parlamentari.

Il sistema elettorale vigente consiste in una legge elettorale mista, per 3/8 con collegi uninominali e 5/8 proporzionali; con listini bloccati (non è possibile esprimere una preferenza) e senza voto disgiunto tra lista proporzionale e collegio uninominale (in cui si aggiudica il seggio chi prende più voti).

Concorrono alla ripartizione dei seggi solo le liste che superano a livello nazionale il 3%. Le coalizioni devono superare il 10% a condizione che almeno una delle liste coalizzate abbia superato il 3%. Le liste che fanno parte di una coalizione e non raggiungono l’1% dei consensi non concorrono al superamento della soglia di coalizione.

Un candidato può presentarsi in un solo collegio uninominale e in 5 collegi plurinominali, con la conseguenza che potrà risultare eletto in più collegi, al punto che la legge prevede anche il caso che si esauriscano tutti i candidati in un collegio e si debba ricorrere a candidati di altri collegi per assegnare il seggio.

L’elettore dispone di una sola scheda elettorale e può porre un segno solo su un candidato uninominale, o solo su una lista proporzionale o su un candidato uninominale e su una lista proporzionale a esso collegata, pena l’annullamento del voto.

La conseguenza di questo impianto legislativo è la sistematica violazione della volontà dell’elettore.

Infatti, chi vota solo un candidato uninominale, vota anche le liste a esso collegate; chi vota solo una lista proporzionale, senza poter scegliere all’interno della lista, vota anche il candidato uninominale. Chi vota candidato uninominale e una lista plurinominale collegata, sa solo che concorre a eleggere il candidato uninominale ma non sa chi concorre a eleggere nella quota proporzionale.

Ogni voto, infatti, ai fini della ripartizione dei 5/8 dei seggi finisce in un totalizzatore nazionale, poi l’assegnazione alle liste sarà effettuata in base alla classifica nazionale. Ne consegue che un voto dato alla lista X a Brescia concorre a consentire alla lista il superamento della soglia di sbarramento e in caso positivo ad avere degli eletti che però potrebbero essere a Bari perché lì la lista X ha preso più voti.

La tesi delle liste corte e bloccate che garantirebbero la conoscibilità dei candidati e con essa la scelta, è con evidenza priva di qualsiasi pregio culturale perché bisognerebbe conoscere tutti i candidati d’Italia. In ogni caso, conoscere non significa scegliere e nemmeno apprezzare.

Per quanto esposto, risulta evidente che il voto NON E’ UGUALELIBERO, DIRETTO e PERSONALE, come richiesto dalla Costituzione (articoli 48, 56 e 58).

La ripartizione dei seggi avviene, infatti, verificando quali sono le coalizioni che hanno raggiunto il 10% e quindi assegnando a esse un numero di seggi corrispondente alla cifra elettorale; poi si ripete l’operazione con le liste non coalizzate che hanno raggiunto il 3%.

La conseguenza è che se una coalizione è composta dalle liste A – B – C – D – E dove A prende il 4% dei consensi, B e C ciascuna il 2,5%, D l’1,5% e infine E lo 0,8%, questa coalizione ha una cifra elettorale pari a 10,5% (ottenuta sommando i consensi di A, B, C e D, mentre E non partecipa perché è sotto l’1%) ma tutti i seggi andranno alla lista A in quanto è l’unica ad aver superato il 3%.

Chi ha votato un partito finisce contro la sua volontà a ingrassare un altro partito. Effetto palesemente incostituzionale e anche irragionevole dal momento che il Rosatellum non richiede che una coalizione abbia un programma comune e un capo politico unico. Le coalizioni elettorali non hanno alcun vincolo e ogni partito anche se coalizzato può fare le scelte politiche che preferisce.

La Lega, alleata con FI e FdI, sostenne il governo con il M5S mentre i suoi alleati elettorali restarono all’opposizione; adesso FdI è all’opposizione del governo Draghi mentre gli altri alleati sono al governo.

Questo meccanismo produce un sistematico slittamento del voto da un partito all’altro, da una lista proporzionale al candidato uninominale e viceversa, rendendo il voto diseguale e indiretto, in contrasto con quanto previsto dalla Costituzione. Un partito coalizzato che prende gli stessi voti di un partito non coalizzato può così ottenere una quantità di seggi molto superiore a quella che gli spetterebbe in base alla propria cifra elettorale.

La mancanza del voto disgiunto tra candidato uninominale e lista proporzionale rende il voto non libero. Infatti, l’elettore che non gradisce il candidato uninominale può votare la sola lista proporzionale, ma il suo voto sarà conteggiato anche ai fini dell’elezione del candidato uninominale. Abbiamo quindi una sorta di consenso tacito a favore del candidato uninominale qualunque sia il voto espresso.

L’impossibilità di scegliere tra i candidati produce un Parlamento di nominati e priva l’elettore del proprio diritto di scelta dei propri rappresentanti.

La legge elettorale vigente è per queste ragioni in forte odore di incostituzionalità, soprattutto per la mancanza del voto disgiunto tra candidato uninominale e listino proporzionale e per l’impossibilità di esprimere una preferenza, cosicché sono gli organi di partito, attraverso le pluri-candidature e l’ordine di presentazione in lista, a decidere chi potrà accedere al seggio parlamentate e proprio per questo ancora una volta i cittadini stanno ricorrendo allo strumento del ricorso per ripristinare il proprio diritto di scegliere i propri rappresentanti.

  

Cosa succederebbe se si votasse adesso con l'attuale legge elettorale?

 

La riduzione dei parlamentari in combinazione con la vigente legge elettorale accentua la distorsione maggioritaria originaria del Rosatellum, comprimendo il pluralismo e la rappresentatività del Parlamento, massima espressione della sovranità popolare, in modo particolare al Senato.

Alle prossime elezioni andrebbero eletti 400 deputati e 200 senatori e con il sistema vigente avremmo che alla Camera del Deputati, tolti i deputati riservati alla circoscrizione estero (8) e tolto quello riservato alla Valle d’Aosta (1), rimarrebbero 391 deputati da distribuire tra uninominale e plurinominale nelle 27 circoscrizioni.

I deputati eletti nei collegi uninominali sarebbero 147; quelli eletti con il proporzionale 244.

La circoscrizione Piemonte 1, per esempio, avrebbe 15 deputati da eleggere; 9 con il proporzionale e 6 con il maggioritario.

Ne consegue che nel proporzionale la soglia naturale per avere un eletto sarebbe pari all’11,11%; sotto questa soglia occorre fare affidamento ai resti. Situazioni analoghe o peggiori si verificherebbero in tante altre circoscrizioni.

Al Senato, con 74 seggi uninominali su complessivi 200, la situazione sarebbe ancora più critica perché i seggi sono assegnati su base regionale e una regione come il Piemonte avrebbe solo 14 senatori da eleggere, di cui solo 9 con il proporzionale (soglia naturale 11,11%). 

Con questo sistema elettorale, la coalizione che in modo uniforme su tutto il territorio nazionale viaggia intorno al 40% può aggiudicarsi la maggioranza assoluta dei seggi e addirittura arrivare ben oltre il 60% dei seggi se i maggiori competitor non dovessero coalizzarsi.

Se si considera che nel nostro sistema chi ha la maggioranza assoluta del Parlamento controlla l'esecutivo, può esprimere il Presidente della Repubblica, può riscrivere i regolamenti parlamentari riducendo i già labili spazi concessi alle opposizioni, può esercitare un forte controllo sulla Corte Costituzionale, può modificare la Costituzione senza la certezza di un referendum confermativo, che in ogni caso non si tiene se la revisione è approvata dai 2/3 del Parlamento ... sono evidenti i rischi per la democrazia parlamentare e le garanzie costituzionali.

Il mito della stabilità di governo

 Anche il Rosatellum è nato inseguendo il mito della stabilità di governo, sebbene la logica, la Costituzione e la storia dimostrino che la stabilità di governo non dipende dalla legge elettorale, che serve a trasformare i voti in seggi sulla base di un modello matematico, ma dal sistema istituzionale nel suo insieme.

Nel nostro sistema l’esecutivo deve avere la fiducia delle due camere, che per previsioni costituzionali hanno diversi elettorati e diversi metodi di assegnazione dei seggi; pertanto, la probabilità di avere maggioranze differenti tra le due camere o di non avere una maggioranza precostituita in una o entrambe le camere sono esiti che possiamo considerare inefficienti, ma pienamente conformi alla Costituzione e quindi eliminabili solo modificando la Costituzione. 

Inoltre, in un sistema in cui è sempre possibile in Parlamento formare una nuova maggioranza, è velleitario pensare che una legge elettorale possa produrreil governo scelto dagli elettori” senza una profonda riforma costituzionale.

Con il Mattarellum (legge elettorale mista per il 75% con collegi uninominali, approvata nel 1993), abbiamo votato nel 1994, 1996 e 2001, con il risultato di avere in 12 anni 3 legislature, 8 esecutivi e 5 diversi Presidenti del Consiglio.

Con il Porcellum approvato nel 2005 (legge elettorale proporzionale con premio del 55% dei seggi al primo classificato alle elezioni per la Camera e al Senato al primo classificato in ogni Regione) abbiamo votato nel 2006, 2008, 2013 con il risultato di avere in 12 anni 3 legislature, 6 esecutivi e 6 diversi presidenti del consiglio.

Con entrambe le leggi abbiamo avuto cambi di maggioranza, i famosi ribaltoni, forze politiche nate in Parlamento e mai votate dagli elettori, il trionfo del trasformismo e dei voltagabbana …

Adessso, con il Rosatellum, siamo già a 3 esecutivi con 2 diversi presidenti del consiglio, ma potremmo dire 3 presidenti perché il Conte 2 per metamorfosi non è lo stesso Conte che esaltava Trump e i decreti sicurezza …

Il risultato è sempre stato una profonda alterazione della rappresentatività del Parlamento senza ottenere alcuna stabilità di governo.

Il risultato è stato aver premiato le coalizioni che nel nostro sistema diventano invito alla frammentazione perché non c’è corrispondenza tra come le forze politiche si presentano alle elezioni e come si collocano in Parlamento.

Prendiamo la prima maggioranza nata dopo le elezioni del 2018: governo Conte sostenuto da M5S e Lega.

La Lega era in coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia.  Grazie a questa coalizione La Lega ottenne la bellezza di 50 deputati e 21 senatori  eletti nel maggioritario. Elettori di FI e FdI votarono quei candidati leghisti per dare forza a un progetto politico di centro-destra, ma grazie a questi parlamentari leghisti eletti nei collegi uninominali la Lega ha potuto formare la maggioranza con il M5S.

In cosa consiste il valore positivo della coalizione se dopo il voto la coalizione non esiste più ma esistono i singoli gruppi parlamentari?

Che fine fa la volontà dell’elettore che ha votato un candidato di coalizione per dare forza a un progetto politico, se poi il suo voto serve una causa diversa da quella sostenuta dalla coalizione?

Nel nostro sistema, favorire la formazione di una coalizione significa alterare la rappresentatività del Parlamento senza rafforzare stabilità e governabilità.

Alle elezioni del 2013, il premio consentì al centrosinistra di avere la maggioranza alla Camera, ma non al Senato; nacque una maggioranza tra avversari con addirittura nuove forze politiche mai votate dagli elettori.

Nel 2013, la coalizione di centrosinistra, “Italia Bene Comune”, si sfaldò e SEL, che ne faceva parte, passò all’opposizione, ma la sua consistenza parlamentare aveva avuto un gran beneficio dal premio.

Le coalizioni e il premio hanno sempre prodotto una profonda alterazione dei rapporti di forza tra le diverse componenti politiche in Parlamento, senza ottenere alcuna stabilità di governo.

Inutile e dannoso inseguire la stabilità di governo con la legge elettorale senza alcuna coerenza con il sistema istituzionale che è pur sempre incentrato sul governo parlamentare.

I RICORSI CONTRO LE LEGGI ELETTORALI

 

Negli ultimi anni il Parlamento ha approvato diverse leggi elettorali per il rinnovo del Parlamento che hanno dato un intenso lavoro alla Corte costituzionale e al sistema giudiziario nel suo insieme, giacché non è possibile accedere al giudizio della Corte senza passare per un Tribunale. 

Il cosiddetto Porcellum arrivò al vaglio della Corte dopo una lotta giudiziaria durata anni. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12060/2013, riconobbe che la legge elettorale del 2005 presentava rilevanti e non manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale. Nelle motivazioni con cui rimette il giudizio alla Corte Costituzionale, la Cassazione accolse i rilievi riguardo a premio di maggioranza alla Camera, premio di maggioranza al Senato, liste bloccate che delegano agli organi di partito l’effettiva selezione dei parlamentari; respinse, invece, i rilievi relativi all’indicazione del candidato premier poiché ritenne che questa non fosse lesiva delle prerogative del Presidente della Repubblica, perché in teoria libero di affidare l'incarico di formare il governo a persona diversa da quella che la coalizione vincente aveva indicato.

Si trattava di contestazioni già da tanti giuristi sollevate nel 2005, al tempo della discussione del Porcellum in Parlamento, ma nonostante quelle evidenze la legge fu promulgata e il centrosinistra che vinse nel 2006 le elezioni non fu capace di sbarazzarsi di quella legge, sebbene avesse in campagna elettorale promesso di farlo.

L’aspetto più significativo dell’operato della Cassazione sta proprio nell’aver riconosciuto la natura incidentale della verifica di legittimità costituzionale.

Per la Cassazione non era condivisibile la tesi secondo la quale quanto previsto dalla legge elettorale rientrasse esclusivamente nell’ampio potere discrezionale del legislatore. La tesi della totale discrezionalità del legislatore, infatti, produrrebbe un vulnus gravissimo per l’ordinamento democratico poiché la legge fondamentale per il funzionamento della democrazia sarebbe sottratta al giudizio di costituzionalità.

La palla passò alla Corte Costituzionale e una eventuale dichiarazione di inammissibilità avrebbe comportato che la legge elettorale sarebbe stata sottratta al giudizio di costituzionalità, tesi molto ardita da sostenere, non solo per quanto affermato dalla Cassazione, ma anche perché la legge elettorale è una legge costituzionalmente necessaria.

Possiamo accettare che su una legge fondamentale per la formazione del Parlamento possa gravare il dubbio d’incostituzionalità? Si può ritenere che la conformità alla Costituzione si limiti al rispetto dei pochi requisiti richiesti? Età per l’accesso alle cariche elettive, cittadinanza italiana, godimento dei diritti politici? Certamente no.

La Corte Costituzionale decidendo per l’ammissibilità del ricorso ci offriva due possibili scenari: o il Porcellum era conforme alla Costituzione o non era conforme Costituzione.

Se il Porcellum fosse stato ritenuto costituzionale, avrebbe significato che il nostro regime è per costituzione una partitocrazia. Tutto rientrerebbe nel potere discrezionale del legislatore. Come dire, parola di legislatore parola di Re!

Se il Porcellum fosse stato ritenuto non costituzionale, avrebbe significato che il nostro regime è gravemente deficitario di garanzie e contrappesi, tant’è da consentire non solo che ben tre parlamenti siano stati eletti sulla base di una legge incostituzionale, ma addirittura che il Parlamento eletto nel 2013 con una legge nel 2014 dichiarata incostituzionale, proprio negli aspetti che hanno determinato i rapporti di forza tra le forze politiche, potesse restare in carica fino al 2018 e addirittura approvare una corposa riforma costituzionale, respinta solo grazie al voto referendario, e a forza di voti di fiducia ben due nuove leggi elettorali, di cui una censurata dalla Corte senza nemmeno essere mai stata applicata. Una situazione che ha consentito un’autentica macelleria dei principi della rappresentanza parlamentare.

Oggi siamo ancora nella stessa situazione: l’ultimo Parlamento partorito dal Porcellum ha prodotto prima il famigerato Italicum e poi non contento il Rosatellum, che ripropone aspetti già censurati dalla Corte. Per questo, anche il Rosatellum è oggetto di ricorsi e ci auguriamo che qualche Tribunale accolga il ricorso affinché la legge elettorale vigente possa essere analizzata dal punto della legittimità costituzionale, dato che la valutazione politica è unanime: è una pessima legge che però gli interessi di parte non consentono di superare, esattamente come avvenne  con il Porcellum.

ENTRA LA CORTE

Nella situazione italiana, in cui dal 1993 siamo in perenne viaggio verso una meta ignota e le leggi elettorali si confezionano in base agli interessi delle fazioni politiche di volta in volta al governo, ma sempre senza alcuna attenzione per il sistema istituzionale, se non in aperto conflitto con  esso, e nella totale distrazione degli organi di garanzia, che non si comprende bene di cosa sarebbero garanti, è altissimo il rischio che la Corte assuma una decisione politica, non nel senso spregevole di sentenza di parte deliberatamente assunta contro un’altra parte, ma nel senso di avvertire il peso di una decisione in un contesto politico gracile in cui da anni i partiti si confrontano improduttivamente.

D’altra parte, le sentenze della Suprema Corte sono inevitabilmente politiche, nel senso che devono accertare la compatibilità di una legge con i principi giuridici e pre-giuridici che la collettività ha posto alla base della propria esistenza. E tutto ciò non è “apolitico, come dimostra il lungo, difficoltoso e incompleto cammino per attuare la Costituzione.

Non va in ogni caso sottovalutato l’aspetto più critico dell’attività della Corte Costituzionale, vale a dire il rapporto con il potere legislativo.

Decenni di storia e di sentenze dimostrano la diffusa latitanza del Parlamento nei confronti delle sentenze della Suprema Corte. Si pensi alla vicenda radiotelevisiva su cui il Parlamento ha letteralmente fatto carta straccia delle sentenze della Corte. Stessa sorte è toccata alla materia elettorale. Il Parlamento ha, infatti, ignorato tutti i moniti sin dal 2008 rivolti dalla Corte al legislatore sul Porcellum.

Con la sentenza n. 15 del 2008, che riguardava l’ammissibilità di un referendum abrogativo sulla legge elettorale, la Corte lanciò un primo monito al legislatore segnalando “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”.

Sempre nel 2008 con la sentenza n. 16 si replicò con riferimento al premio di maggioranza regionale previsto al Senato.

Il 12 aprile 2013, nel corso dell’incontro annuale con la stampa, il Presidente della corte lamentò la difficoltà di dialogo “proprio con il soggetto che della corte dovrebbe essere il naturale interlocutore, e cioè il legislatore”.

Con la sentenza n. 1/2014 la Corte costituzionale censurò importanti previsioni della legge elettorale, ma allo stesso tempo introdusse nel dibattito politico delle mine vaganti che hanno reso tutto ancora più incerto e problematico.

Così, dopo la bocciatura del Porcellum, il Parlamento ha prodotto la più incredibile legge elettorale della storia italiana: l’Italicum, una legge elettorale che trasformava la competizione per eleggere i rappresentanti politici del popolo italiano in una competizione per decidere quale partito dovesse governare, trasformando con certezza matematica una maggioranza relativa in una maggioranza assoluta, pur rimanendo sulla carta il nostro sistema costituzionale imperniato sul governo parlamentare.

L'Italicum fu approvato e promulgato a dispetto del fatto che la Corte costituzionale avesse affermato che una alterazione della rappresentanza è accettabile solo per favorire la stabilità di governo e maggioranze omogenee tra le due camere. Presupposto indispensabile dell’Italicum, che riguardava la sola Camera dei Deputati, era l’approvazione definitiva della revisione costituzionale Boschi-Renzi, che ancora era in alto mare quando la legge elettorale fu promulgata.

L’approvazione e promulgazione di quella legge elettorale fu oggettivamente un autentico azzardo istituzionale perché  qualora la riforma costituzionale non fosse stata confermata entro il primo luglio 2016, ci saremmo ritrovati con due camere ancora direttamente elettive ma con sistemi elettorali estremamente diversi: la Camera con premio di maggioranza al 55% dei seggi e ballottaggio, qualora nessuna lista raggiungesse al primo turno il 40% e il Senato con possibilità di formare coalizioni (proibite alla Camera) e sistema proporzionale con preferenza e alte soglie di sbarramento, rendendo nei fatti assurdo procedere con lo scioglimento delle camere. Un azzardo che conferma quanto nel nostro sistema la vistosa carenza di contrappesi e garanzie contribuisca a produrre l’affossamento della responsabilità della funzione sotto il peso delle contingenze politiche. Avvenne così quando fu promulgato il Porcellum, lo stesso copione si ripeté con l’Italicum e con il Rosatellum, approvato nel 2017 con raffiche di voti di fiducia che non avevano ragione istituzionale di esistere.

Ciò premesso, non c’è alcun dubbio sul fatto che le sentenze della Corte Costituzionale n. 1/2014 sul Porcellum e n. 35/2017 sull’Italicum  hanno fissato dei paletti importanti, ma allo stesso tempo non hanno risolto alcun problema, rendendo ancora più intricato il dibattito politico che si trascina dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso.

Per semplicità di comprensione, analizzeremo nei successivi articoli le sentenze della Corte Costituzionale su Porcellum e Italicum in modo tematico per non perderci nell’intreccio dei temi politici, istituzionali e giuridici.

LE COALIZIONI

Le coalizioni rappresentano una “novità”, premiata e incentivata, nel nostro sistema elettorale sin dal 1993 quando fu approvato il Mattarellum. La Corte non si è mai espressa sulle coalizioni, limitandosi ad avvalorare la tesi secondo cui le coalizioni contribuirebbero alla stabilità di governo.

Tesi affermata in modo apodittico, non supportata da argomentazioni e in ogni caso tesi che crolla alla verifica con la realtà, di cui tutti dovrebbero tener conto senza indulgere troppo con le astratte speculazioni.

Le coalizioni hanno solo la nascita della maggioranza, senza impedire che altre maggioranze e altri governi potessero formarsi. Quindi, le coalizioni producono con assoluta certezza l’alterazione dei rapporti di forza tra le componenti politiche e della rappresentatività del Parlamento.

Nella realtà, favorire la nascita di un governo non significa garantirne la stabilità perché una maggioranza può frantumarsi provocando la nascita di nuove maggioranze e nuovi governi, cosicché premiare le coalizioni garantisce solo l’alterazione della rappresentatività del Parlamento.

Se per instabilità di governo s’intende la caducità degli esecutivi, allora nessuno può ignorare che l’Italia è caratterizzata da governi di coalizione in cui i partiti elettoralmente minori hanno un potere sproporzionato e spesso sono causa delle cadute dei governi, talvolta però i governi cadono o hanno vita tormentata per il conflitto tra le correnti interne al partito di maggioranza relativa. In questa situazione, non si risolve il problema dell’instabilità favorendo la formazione di coalizioni prima del voto: i partiti faranno dopo il voto ciò che hanno sempre fatto. E’ sul sistema costituzionale che bisogna intervenire per superare il limite intrinseco dei governi di coalizione, dove nulla conta se le coalizioni sono nate prima del voto o dopo.

Era prevedibile che incentivare la formazione di coalizioni, avrebbe prodotto coalizioni eterogenee per sottrarre all’avversario il privilegio di formare il governo. 

Nel 2014, quando la Corte ha valutato il Porcellum, era osservabile che le coalizioni erano sempre implose provocando ribaltoni e nuove maggioranze spesso nate con la formazione di nuove forze parlamentari mai votate dagli elettori. 

Era successo così con  il primo governo Berlusconi, quando la Lega uscì dalla maggioranza, successe la stessa cosa dopo la caduta del primo governo Prodi e la nascita del governo D’Alema e poi ancora con la fine del governo Prodi II e con la nascita del governo Monti nato dall’implosione della coalizione che sosteneva il governo Berlusconi IV.

Tutto ciò era noto alla Corte Costituzionale e i giudici dovrebbero tener conto della realtà che le leggi contribuiscono a determinare.

Favorire le coalizioni significa indurre i Partiti a presentarsi insieme solo per avere dei vantaggi a spese di altri Partiti che decidono di correre da soli.

In cosa consiste il valore positivo della coalizione se dopo il voto la coalizione non esiste più ma esistono i singoli gruppi parlamentari?

Che fine fa la volontà dell’elettore che ha votato una coalizione per dare forza a un progetto politico, se poi il suo voto serve una causa diversa da quella sostenuta dalla coalizione?

Nel sistema vigente, ad esempio, tutte le liste coalizzate che prendono più dell’1% ma meno del 3% ingrassano le altre liste della coalizione che hanno raggiunto il 3% e quindi concorrono alla ripartizione dei seggi.

Ciò comporta che l’elettore che vota la lista A coalizzata con B e C potrebbe finire per far ottenere più seggi a B e C qualora A non dovesse raggiungere il 3%, evento che nelle elezioni del 2018 si è verificato con entrambe le coalizioni in pista.

Il voto diventa indiretto e diseguale

Indiretto perché in realtà gli elettori non scelgono i propri rappresentanti (quindi voto non personale) ma danno ai partiti il potere di scegliere chi mandare in parlamento in base ai consensi ottenuti o trasmessi da altre liste. 

Diseguale perché un partito coalizzato potrebbe avere più seggi di un altro partito non coalizzato pur prendendo lo stesso numero di voti proprio perché tutti i voti dati alle liste che prendono più dell’1% e meno del 3% sono trasferiti alle liste di coalizione che raggiungono il 3%.

La Costituzione però prescrive che il voto deve essere eguale e diretto (articoli 48, 56 e 58).

LA SOGLIA DI SBARRAMENTO

La previsione di soglie di sbarramento “sono tipiche manifestazioni della discrezionalità del legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla governabilità” (Corte cost. sentenza n. 193/2015).

Nella sentenza n. 35/2017, leggiamo che per la Corte costituzionale “non è manifestamente irragionevole che il legislatore, in considerazione del sistema politico-partitico che intende disciplinare attraverso le regole elettorali, ricorra contemporaneamente, nella sua discrezionalità, a entrambi tali meccanismi. Del resto, se il premio ha lo scopo di assicurare l’esistenza di una maggioranza, una ragionevole soglia di sbarramento può a sua volta contribuire allo scopo di non ostacolarne la formazione. Né è da trascurare che la soglia può favorire la formazione di un’opposizione non eccessivamente frammentata”.

Per la Corte costituzionale la legge elettorale sottoposta al suo giudizio ha anche il compito di disciplinare il “sistema politico-partitico”. Non si comprende come dal momento che tanto il Porcellum quanto l’Italicum e il vigente Rosatellum sono leggi elettorali finalizzate a determinare i criteri per trasformare i voti in seggi, a stabilire le regole per la presentazione dei simboli e delle liste dei candidati, il deposito dei programmi … e quindi senza alcuna possibilità di disciplinare il sistema dei partiti perché quelle leggi elettorali non definiscono come devono essere selezionati i candidati, come si approva un programma, come si decidono le alleanze, quali sono le funzioni dei partiti …

Singolare anche la preoccupazione di non frammentare l’opposizione, trascurando che con le soglie di sbarramento si ottiene il risultato di escludere forze politiche che non sono in sintonia con i principali schieramenti e quindi si riduce il pluralismo. 

Nelle elezioni del 2008, le soglie tennero fuori dal parlamento tanto La Sinistra Arcobaleno, quanto il Partito Socialista e la Destra Tricolore e altre liste provocando una dispersione di voti validi pari a 3,5 milioni su un totale di 36,5 milioni di voti validi, quasi il 10%. 

La crisi delle due maggiori coalizioni, formatesi in occasione delle elezioni del 2006, produsse frammentazione politica al punto che nel 2006 le due principali coalizioni raccolsero il 99,5% dei voti validi e nel 2008 le prime due coalizioni con la stessa legge elettorale si fermarono all’84%, con aumento dell’astensione e della dispersione dei voti.

Le soglie di sbarramento costituiscono un incentivo alle alleanze, ma contribuiscono anche all’astensione, alla dispersione di voti e alla compressione del pluralismo mentre non servono a ridurre la frammentazione politica, quando tra le forze politiche manca il dialogo e prevalgono gli elementi di differenziazione. 

Non a caso, dal 1994, prime elezioni con sistema prevalentemente maggioritario, assistiamo all'esplosione delle sigle partitiche che affollano le schede elettorali e contemporaneamente cresce la dispersione di voti e l'astensionismo.

Nel 2013, ultime elezioni con sistema elettorale dotato di premio elettorale e soglie di sbarramento, avevamo una infinità di candidati premier e liste politiche con una quantità spaventosa di voti dispersi. La sola coalizione di centro-destra era composta da 8 liste di cui 5 rimaste sotto l'1%. Nella coalizione formatasi intorno a Monti, l'UDC non arrivò al 2% e Futuro e Libertà fermatasi allo 0,47% non ottenne alcun eletto. Stessa sorte per Rivoluzione Civile di Ingroia, Fare per fermare il declino di Giannino, il Partito comunista dei lavoratori di Ferrando ... 

Come si può di fronte a questa realtà affermare che le soglie di sbarramento evitano la frammentazione della rappresentanza politica e contribuiscono alla governabilità?

Nel 2018, svoltesi con il vigente Rosatellum, 2,6 milioni di voti validi su circa 32,5 sono rimasti senza rappresentanza diretta, ingrassando le forze politiche ammesse alla ripartizione dei seggi. Dato non trascurabile se poi consideriamo che un altro 4,34% ha votato scheda bianca o nulla!

Se poi dedichiamo un po’ di attenzione al Senato, che la Costituzione (art. 57) vorrebbe eletto su base regionale, ci rendiamo conto che la soglia di sbarramento calcolata a livello nazionale rende impossibile che forze politiche forti a livello regionale possano avere una rappresentanza a livello nazionale. Una forza politica locale, potrebbe anche avere il 10% in una regione, ma se non rappresenta il 3% a livello nazionale, resta esclusa.

L’eventualità indicata è tutt’altro che fantasiosa essendo esattamente quel che è ripetutamente successo a forze politiche radicate in alcuni territori ma poco rilevanti in ambito nazionale. Nel 1983 la Liga Veneta raccolse appena lo 0,29% dei voti a livello nazionale ma ottenne un seggio al Senato in Veneto perché lì rappresentava il 3,68% dei voti validi espressi. Nel 1992 la lista Per la Calabria valeva a livello nazionale appena lo 0,43% ma in Calabria ottenne 2 senatori perché lì rappresentava il 15,21% dei voti validi e la terza forza politica regionale. Oggi, con la normativa vigente, questa lista non parteciperebbe alla ripartizione dei seggi senatoriali, escludendo così il 15% dei votanti calabresi.

L’elezione su base regionale del Senato ha la finalità di dare voce a forze politiche e sociali rilevanti nei territori regionali. Si tratta di una componente importante del pluralismo e dell’autonomismo non a caso valorizzato dall’art 5 della Costituzione laddove afferma “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.

Sarebbe utile che tutti a qualsiasi livello considerassero la realtà dei fatti senza abbandonarsi alle astrazioni speculative e aprioristiche che sfidano le leggi della logica.

IL PREMIO

Un premio che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta garantisce la profonda alterazione della rappresentatività del Parlamento e compromette seriamente un sistema istituzionale basato sul governo parlamentare,  senza garantire alcuna stabilità politica e di governo.

Lo conferma anche la storia: fine del Berlusconi IV per implosione della maggioranza e nascita del governo Monti. Con il Porcellum abbiamo eletto il parlamento nel 2006, 2008 e 2013; quindi, una legislatura su tre finita anticipatamente e la bellezza di ben 6 governi con 6 diversi presidenti del consiglio in soli 12 anni!

Leggiamo cosa scrive la Corte nella sentenza n. 1/2014: “Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto. In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952). Le norme censurate, pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare, dettano una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.”

In sostanza, nonostante la Corte rilevi che l’impianto della legge elettorale sia proporzionale e nonostante richiami il principio in base al quale se il legislatore ricorre anche parzialmente al sistema proporzionale ingenera la legittima aspettativa che non vi sia alterazione tra il valore del voto in entrata e quello in uscita, per la Corte è conforme alla Costituzione una legge elettorale proporzionale con premio, se altera in modo ragionevole la rappresentanza per favorire l’interesse costituzionale della stabilità del governo.

La Corte non indica criteri per determinare quando l’alterazione della rappresentanza è ragionevole e si limita ad affermare che occorre fissare una soglia di consensi affinché scatti il premio. Quindi, un premio condizionato come quello previsto dalla legge Acerbo del 1923, che fissava al 25% la soglia da superare, potrebbe essere ragionevole? D’altra parte allora il panorama politico era così frastagliato che alle elezioni del 1921 solo il Partito Socialista si avvicinò al 25% … e oggi è ancora più frastagliato.

Se mi fosse possibile respingerei questa argomentazione della Corte per insufficiente motivazione.

La Costituzione nasce con due camere con durata differente, due diversi sistemi elettorali, due diversi corpi elettorali, due diversi sistemi di ripartizione dei seggi. Tutti elementi che concorrono a consentire la formazione di maggioranze differenti tra le due Camere e che non favoriscono affatto la stabilità del governo (vedi la differente durata delle due camere, previsione abolita nel 1963).

Cosa consente di desumere che la stabilità di governo sia un valore costituzionale di tale portata da legittimare l’alterazione ragionevole della rappresentatività del parlamento se nella Costituzione non troviamo nulla che spinga verso la stabilità di governo?

Questa tesi confligge con la storia costituzionale e persino con la volontà degli elettori che hanno respinto la riforma costituzionale promossa da Berlusconi, in cui era prevista l’approvazione di una legge elettorale che favorisse la formazione di una maggioranza, rafforzando questa previsione con norme “anti ribaltone”.

Vi pare ragionevole che chi ottenga il 40%+1 abbia un premio in seggi pari al 37%, arrivando al 55% dei seggi, e chi prende il 40% si ritrovi a distanza siderale per un solo voto (infatti, avrebbe il 40% ricalcolato sul restante 45% dei seggi, vale a dire il 30% del totale)? Questo è ciò che la Corte considera ragionevole. Il rischio concreto, dunque, è che persino una soglia inferiore al 40% possa essere ritenuta ragionevole.

Le elezioni, per Costituzione, non servono a incoronare Miss Italia, ma a formare il Parlamento che è la massima espressione della sovranità popolare.

Dove sta la ragionevolezza di un sistema premiale in un contesto che resta di governo parlamentare? Così si garantisce l’alterazione della rappresentatività del Parlamento, ma non la stabilità di governo.

L’effetto politico del premio è sempre stato la nascita di coalizioni eterogenee per cercare di conquistare il diritto di formare il governo, snaturando la natura costituzionale del governo parlamentare. 

Il premio ha prodotto maggioranze che sono implose (Prodi II e Berlusconi IV) o nessuna maggioranza favorendo la formazione di nuove forze politiche, mai votate dagli elettori, e nuovi governi e maggioranze (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni), ma sempre con equilibri tra le forze politiche alterati dal premio stesso. 

Solo il premio previsto dalla legge Acerbo ha prodotto stabilità, nell’accezione di Mussolini che ben conosciamo.

In questo contesto, il premio di maggioranza è un autentico pericolo perché una parte politica potrebbe stravolgere il sistema dei diritti costituzionali posti a garanzia di tutti.  Lo scopo di ogni costituzionalismo, d'altra parte, è evitare che la maggioranza o la maggiore minoranza possa prevaricare le minoranze.

Serve un quadro costituzionale che, mentre assicuri a chi ha i numeri il pieno esercizio del potere esecutivo, garantisca a tutti il pieno rispetto dei diritti costituzionali.

Chi dovesse avere la maggioranza assoluta del parlamento, controlla il Governo, potrebbe esprimere il Presidente della Repubblica e controllare la Corte costituzionale; potrebbe modificare i regolamenti parlamentari riducendo al silenzio le opposizioni, potrebbe cambiare la costituzione senza nemmeno la garanzia di un referendum e senza la chiarezza su cosa s’intenda per “revisione” costituzionale.

Il nostro sistema non ha alcuna difesa nel caso una parte politica disponga della maggioranza parlamentare o addirittura dovesse disporre dei 2/3 dei seggi, traguardo possibile con un maggioritario o con un sistema misto come quello attuale.

IL BALLOTTAGGIO

La Corte, dopo aver ritenuto ragionevole il cosiddetto premio di maggioranza, se assegnato al superamento di una quota di voti validi, ha promosso anche il ballottaggio, pur bocciando quello previsto dall’Italicum.

Nella sentenza 35/2017, infatti, è stato bocciato il modo in cui era congegnato il ballottaggio perché non prevedeva che i due primi classificati avessero superato una soglia minima di consensi. Il requisito per accedere al ballottaggio era concorrere alla ripartizione dei seggi e quindi superare la soglia del 3%! Con il ballottaggio avrebbe potuto vincere chiunque si fosse classificato tra i primi due, ottenendo così pur con consensi irrisori il 55% dei seggi, semplicemente perché in un duello elettorale a due è inevitabile che uno dei due abbia la maggioranza assoluta dei voti!

La Corte non ha offerto spunti per configurare diversamente il ballottaggio, ma non si può escludere che qualcuno ripeschi il tema, anche perché non è stata adeguatamente messa in risalto la vera natura del ballottaggio: trasformare un sistema di governo parlamentare in un sistema a elezione diretta del governo.

L’Italicum avrebbe garantito con certezza matematica che in un modo o nell’altro dal voto uscisse un partito con una maggioranza assoluta; un’autentica trasformazione del sistema parlamentare in una sorta di cancellierato rafforzato a Costituzione invariata.

In sostanza si applicava a livello nazionale il sistema per l’elezione del sindaco, evocando l’immagine del “sindaco d’Italia”. Tutto questo mentre la Corte con sentenza n. 275/2014 aveva già affermato che non va sovrapposta la normativa elettorale per il parlamento a quella per gli organi politico-amministrativi dei Comuni: “La normativa statale riguarda l’elezione delle assemblee legislative nazionali, espressive al livello più elevato della sovranità popolare in una forma di governo parlamentare. La legge regionale riguarda gli organi politico-amministrativi dei Comuni, e cioè il sindaco e il consiglio comunale, titolari di una limitata potestà di normazione secondaria e dotati ciascuno di una propria legittimazione elettorale diretta.” (Sentenza n. 275/2014)

In altri termini, mentre il sindaco è per legge eletto direttamente dai cittadini, e si privilegia l’aspetto esecutivo sull’aspetto rappresentativo, il Governo nazionale è per Costituzione espressione del Parlamento, che è l’assemblea rappresentativa della sovranità popolare.

Così, la Corte scrive di assemblea rappresentativa della sovranità popolare, di uguaglianza del voto, di governo parlamentare ma poi ammette il premio e il ballottaggio che rappresentano la negazione di tutto ciò.

Questo argomentare poco convincente della Corte non aiuta ad avere certezze su quali siano i punti cardinali del nostro ordinamento costituzionale e suscita molti dubbi sull’efficacia stessa degli organismi di garanzia.

LA PREFERENZA

 

Nel 1991 con il referendum sulle preferenze per l’elezione dei Deputati gli elettori scelsero di passare dalla possibilità di esprimere fino a tre preferenze alla preferenza singola. Questo referendum faceva parte di un pacchetto di proposte che mirava a introdurre nel nostro paese il maggioritario. La Corte Costituzionale però bocciò gli altri quesiti e così si votò solo sulla preferenza multipla.

L’argomento principale contro la preferenza multipla era che questa sarebbe causa di corruzione e voto di scambio. Dall’altro lato, però, eliminando la preferenza si sarebbe lasciato ai Partiti il potere di decidere chi debba sedere in Parlamento, così i Partiti si sostituirebbero agli elettori nella scelta dei rappresentanti degli elettori, condizione bizzarra per una democrazia rappresentativa.

In ogni caso, con il referendum non è stata abolita la preferenza, ma la possibilità di esprimere più preferenze. D’altra parte, la Corte Costituzionale già con la sentenza n. 203/1975 aveva chiarito che un Partito non lede alcun diritto decidendo autonomamente l’ordine dei candidati in lista, perché l’elettore è “libero e garantito nella sua manifestazione di volontà sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza”.

Ne consegue che se non esiste questa libertà di scelta tra i candidati, allora i partiti “coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che rappresenta una delle principali espressioni della sovranità popolare” (Corte cost. sentenza n. 1/2014)!

Se la preferenza è causa di corruzione e voto di scambio, allora non si comprende perché lasciarla per le elezioni comunali, regionali e per il parlamento europeo. Eppure è noto a tutti quanto la corruzione sia profonda soprattutto a livello locale e quanta parte importante abbiano comuni e regioni nella gestione di fiumi di denaro, sull’affidamento degli incarichi, nella gestione di municipalizzate, sanità, appalti …

Nella sentenza 1/2014 la Corte ha ricordato anche la funzione dei partiti che devono favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica anche “al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati”.

Nessun ricorso ha permesso alla Corte di esprimersi sul sistema opaco con cui gli apparati di partito procedono alla scelta dei candidati, comprimendo il diritto di elettorato passivo, che resta privo di efficaci tutele. E’ evidente che la possibilità di scegliere TRA i candidati è importante, ma poco incisiva se i cittadini sono esclusi dalla scelta DEI candidati, perché l’elettore potrebbe dover scegliere solo tra fedelissimi del capo politico.

Non a caso, la Corte con la sentenza n. 1/2014, dopo aver ricordato la funzione dei partiti e aver richiamato la già citata sentenza n. 203/1975, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che “non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione”.

La Corte osserva che “alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini”. In effetti, le liste bloccate impediscono la scelta tra i candidati, la lunghezza della lista sfavorisce la conoscenza dei candidati e le pluricandidature insieme alle soglie nazionali di sbarramento e ai resti utilizzati anch’essi a livello nazionale impediscono all’elettore di prevedere chi contribuisce a eleggere.  

La Corte, dunque, boccia le liste bloccate perché non consentono all’elettore “di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti”.

Dopo questa censura totale delle liste bloccate, il giudice delle leggi introduce un ragionamento dal quale sembra emergere che il problema sia la quantità dei candidati inclusi nella lista e l’ampiezza della circoscrizione.

La Corte, infatti, scrive: “Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto”.

Queste righe sono state strumentalmente utilizzate per affermare che le liste bloccate ma corte sarebbero conformi alla Costituzione. In realtà, la Corte ha affermato che la nostra disciplina non è comparabile con altri sistemi e ha osservato che la scelta in blocco dei candidati limita la libertà di voto. Evidente che la libertà non risulta meno limitata se l’accettazione in blocco riguarda una lista di 20 candidati o di 4! Il risultato sarebbe in ogni caso che “alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini” (Corte Cost. sentenza n. 1/2014).

Semplicemente, se i candidati sono tanti, addirittura c’è il rischio che l’elettore nemmeno conosca la lista che approva con il voto. L’accettazione in blocco di una lista, a prescindere dalla lunghezza della lista stessa, ricorda da vicino le elezioni plebiscitarie del 1929 in cui si approvava la lista del Partito, con l’unica differenza che allora il partito era solo uno e adesso ne abbiamo tanti.

Il semplice ricorso alla logica rende chiaro che conoscere tutti i candidati presenti in una lista, non significa apprezzarli e la conoscenza in sé non è scelta ma solo presupposto indispensabile per effettuare una scelta consapevole. Inoltre, se si conoscono i candidati, pochi o tanti che siano, non esiste alcuna ragione al mondo per impedire di scegliere. Evidente che la conoscenza non produce affatto “effettività della scelta” se è preclusa la possibilità di scelta. 

Bisognerebbe sempre evitare di violentare le parole, che i giudici dovrebbero manovrare con cautela e attenzione, evitando di abusare di aggettivi e avverbi.

Inoltre, il fatto che in altri sistemi elettorali siano previste liste corte bloccate non significa che introdurre questo criterio nel nostro sistema sia coerente con la nostra Costituzione. Un sistema elettorale non può essere valutato solo sulla base della lunghezza di una lista di candidati, ignorando il metodo complessivo di assegnazione dei seggi e l’intero sistema costituzionale che non è mai identico a quello in vigore altrove.

Conoscere non significa apprezzare e la privazione della scelta inibisce la libertà di voto; l’elettore potrebbe essere indotto a non votare, pur di non contribuire a eleggere chi non apprezza, o a votare una lista diversa più lontana dal proprio pensiero politico. Il divieto di scelta tra i candidati rende il voto indiretto e non libero, in aperto contrasto con la Costituzione (articoli 48, 56 e 58).

La Corte citando in modo vago altri sistemi, definiti non comparabili, pare faccia riferimento al sistema spagnolo caratterizzato da circoscrizioni piccole (50) con liste bloccate formate da pochi candidati.

Va però ricordato che in Spagna il principio elettorale è costituzionalizzato, mentre da noi non lo è. In Spagna il voto esaurisce i suoi effetti nella piccola circoscrizione, mentre da noi ogni voto gioca un ruolo a livello nazionale e le circoscrizioni (28 + Estero) sono enormi. Nei fatti, un voto dato a Torino può condurre alla elezione di un signore sconosciuto a Cosenza.

La presunta “effettività della scelta” non esiste se ci limitiamo a considerare la lunghezza della lista. Occorre considerare il sistema delle circoscrizioni, il sistema delle soglie, l’utilizzo dei resti … e pur considerando tutto questo resta la domanda di fondo: a quale logica risponde il criterio che poiché sono noti i pochi candidati in lista non serva scegliere tra questi pochi? 

Disquisire di liste corte, lunghe o pacioccone è una operazione priva di pregio culturale e giuridico, se non si considera l’intero meccanismo di assegnazione dei seggi.

Nei fatti, introducendo la lista corta bloccata nel nostro sistema elettorale che prevede pluricandidature, soglie di sbarramento nazionali, utilizzo dei resti a livello nazionale e circoscrizioni molto estese, come faceva il censurato Porcellum, ma anche il vigente Rosatellum, si realizza un sistema che impedisce all'elettore di conoscere l'effetto che il suo voto produce in termini di selezione del candidato.

Il voto dato a una lista di partito in un determinato collegio produrrà frequentemente l'assegnazione del seggio in altro collegio plurinominale dove la lista dello stesso partito è composta da altri candidati sconosciuti. Se si considera solo la lunghezza della lista, nei fatti si realizza un sistema in cui la lista è lunghissima perché composta da tutti i candidati presenti in tutti i collegi plurinominali.

Se si segue l’intero ragionamento svolto dalla Corte, si comprende che il riferimento ad altri sistemi non comparabili voleva essere un rafforzativo di censura, ma richiamando altri sistemi, senza valutarne le diversità, la Corte ha offerto lo spunto per una interpretazione capziosa delle cosiddette liste corte e bloccate.

La Corte, in ogni caso, scrive nelle conclusioni che si può procedere con l’integrazione delle norme in modo da consentire il voto di preferenza; pertanto, onestà intellettuale vorrebbe che nessuno utilizzasse in modo surrettizio una frase della Corte che non può inficiare un ragionamento articolato e soprattutto la conclusione: sia inserita la preferenza.

Se il Parlamento “rappresenta una delle principali espressioni della sovranità popolare”, allora il voto è un trasferimento di sovranità dall’elettore all’eletto, dal rappresentato al rappresentante e non ha alcun senso persino sul piano logico che chi deve delegare non possa scegliere il delegato.